Un’Alleanza che dimentica la sua natura
Le parole dell’ammiraglio Cavo Dragone su una NATO “più aggressiva” e “proattiva” non sono una stonatura tecnica: sono un allarme politico che dovrebbe far sussultare chiunque abbia letto almeno una volta il Trattato del 1949 o l’articolo 11 della Costituzione italiana. Perché quando un’alleanza nata esplicitamente come struttura difensiva comincia a ragionare come se dovesse andare a cercare il conflitto invece di evitarlo, vuol dire che qualcosa s’è rotto, e da un pezzo. Il fatto che un militare italiano ai vertici dell’Alleanza parli di “aggressività” con leggerezza, in un momento in cui l’Europa è già seduta su un campo minato, è il segnale di una deriva che non ha più nemmeno bisogno di essere mascherata: la NATO non si percepisce più come scudo, ma come attore politico e militare autonomo, con una propria agenda che prescinde dai limiti della sua carta fondativa.
E questa non è teoria: basta guardare alla guerra tra Russia e Ucraina. La NATO si è ritagliata un ruolo che di difensivo non ha nulla e che, soprattutto, nessuno le ha formalmente chiesto. Non l’ONU, che non ha mai autorizzato alcun intervento; non i suoi stessi trattati, che non prevedono una mobilitazione politico-militare in favore di un Paese terzo contro un altro Paese terzo; non la logica di un’alleanza che dovrebbe reagire soltanto quando un proprio membro viene attaccato, non quando decide di prendere parte a un conflitto esterno. La verità che molti fingono di non vedere è che la NATO, nella guerra russo-ucraina, ha scelto di giocare un ruolo non neutrale e di fatto bellico, al di fuori del suo mandato originario, espandendo progressivamente la propria partecipazione: intelligence, forniture, addestramento, coordinamento strategico, pressione politica, tracciamento degli obiettivi. È un coinvolgimento che, per quanto lo si pretenda di giustificare, resta fuori da ogni cornice legale dell’Alleanza. Non si tratta di difendere un alleato, si tratta di supportare militarmente un Paese esterno all’Alleanza contro un altro Paese esterno. E lo si fa senza alcun mandato internazionale.
In questo contesto, le parole di Dragone assumono un significato ancora più preoccupante: non sono un avvertimento, sono la conferma che la NATO ha superato i propri limiti, trasformandosi in un attore geopolitico interventista. Una metamorfosi che collide frontalmente con i principi costituzionali italiani: come può un Paese che ripudia la guerra come strumento di offesa accettare, senza battere ciglio, che il suo massimo rappresentante militare nell’Alleanza evochi una postura “aggressiva” mentre l’organizzazione stessa è già da due anni impegnata in un sostegno militare a un conflitto che non riguarda direttamente alcuno dei suoi membri?
Il problema non è un aggettivo infelice, è l’architettura concettuale che lo sostiene: l’idea che la NATO abbia una missione autonomamente espansiva, che non debba rispondere né all’ONU né ai propri testi fondativi, e che possa intraprendere azioni “proattive” in domini sempre più ambigui come il cyberspazio. L’Italia dovrebbe essere la prima a opporsi a questa deriva, non la cassa di risonanza di un linguaggio che puzza di escalation. Perché se la NATO diventa un soggetto interventista, smette di essere ciò che prometteva: un meccanismo di difesa collettiva. E perché l’interesse nazionale, oltre che la nostra Costituzione, non prevedono alcuna fedeltà a strategie aggressive né a iniziative militari preventive, soprattutto quando sono prive di qualsiasi legittimazione internazionale.
Alla fine, la verità è semplice: un’Alleanza che parla di aggressività è un’Alleanza che ha dimenticato perché è nata. E un Paese che non reagisce quando questa retorica si consolida è un Paese che rischia di farsi trascinare in una guerra che non ha scelto. L’Italia questo lusso non può permetterselo. E dovrebbe dirlo forte.

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