Marwan Barghouti, perché Israele non vuole liberarlo ?

  







C’è una frase che ricorre spesso nelle cronache dal Medio Oriente: “Marwan Barghouti è il Mandela palestinese”. È una formula potente, suggestiva, forse troppo semplice. Dietro questa analogia si nasconde una speranza e, insieme, un paradosso. Perché Barghouti è davvero, come fu Mandela, un uomo che da decenni vive dietro le sbarre per aver guidato la lotta del suo popolo. Ma non ha ancora avuto la possibilità di diventare ciò che Mandela fu dopo la prigione: un costruttore di pace.

Marwan Barghouti, oggi sessantaseienne, è uno dei leader storici di Fatah, il movimento fondato da Yasser Arafat. È stato tra i protagonisti della Seconda Intifada, la rivolta palestinese scoppiata nel 2000, e per questo nel 2004 è stato condannato da un tribunale israeliano a cinque ergastoli per il suo ruolo in attacchi che causarono vittime civili. Da allora è in carcere, ma il suo nome non è mai scomparso dalla politica palestinese: nei sondaggi, Barghouti continua a essere una delle figure più popolari, rispettata anche da fazioni rivali come Hamas.

Per molti palestinesi, la sua prigionia non è solo una condanna personale, ma la metafora di un popolo intero: costretto, diviso, ma ancora in cerca di libertà.

L’accostamento a Nelson Mandela non è solo giornalistico. Entrambi hanno conosciuto la prigione come strumento di resistenza. Entrambi hanno guidato movimenti nazionali che, a un certo punto, hanno dovuto scegliere tra lotta armata e negoziato politico. Entrambi, infine, sono diventati simboli di dignità per le rispettive cause.

Ma qui finiscono le somiglianze.

Mandela è stato arrestato in un Sudafrica che, seppur segregato, era uno Stato unitario, con un sistema politico e una comunità internazionale che alla fine ne riconobbe l’ingiustizia. La sua liberazione nel 1990 avvenne in un contesto di negoziato e di trasformazione già avviato.

Barghouti, invece, resta prigioniero in un territorio frammentato, occupato, attraversato da conflitti interni e da una crisi politica cronica. La sua libertà, oggi, è un tema più simbolico che concreto.

Ogni leader incarcerato proietta la propria immagine su un precedente storico.

Come Gandhi, Barghouti rappresenta la resistenza di un popolo colonizzato. Ma dove Gandhi fece della non-violenza la sua arma, Barghouti è figlio di un’epoca in cui la violenza era già parte del linguaggio politico.

Come Aung San Suu Kyi, è diventato simbolo internazionale di una causa, ma — proprio come lei — rischierebbe di scoprire, una volta libero, quanto difficile sia governare dopo aver incarnato un mito.

Come Lech Wałęsa, ha una legittimità che nasce dal basso: dal popolo, non dal potere. Ma gli mancano alleanze internazionali e condizioni geopolitiche favorevoli.

E infine, come Bobby Sands, rappresenta il dolore di una nazione che si sente invisibile. Entrambi hanno trasformato la detenzione in messaggio politico, anche se Barghouti, diversamente da Sands, non ha scelto la morte come strumento di lotta, ma la resistenza lunga della sopravvivenza.

Ogni volta che un leader diventa simbolo, nasce una domanda: cosa accadrà quando il simbolo tornerà uomo?

Mandela seppe incarnare il perdono e guidare la transizione verso una democrazia. Suu Kyi, una volta al potere, deluse molte delle speranze che lei stessa aveva alimentato. Barghouti non ha ancora dovuto affrontare quella prova, e forse per questo il suo mito resiste.

Dietro le sbarre, non è costretto ai compromessi del potere; non deve trattare con Israele, con Hamas o con la comunità internazionale. È libero, paradossalmente, proprio perché non può agire.

Nel 1994 Mandela divenne presidente di un Sudafrica che aveva finalmente riconosciuto se stesso come nazione. Barghouti, invece, vive in un territorio che non è ancora Stato, e che la comunità internazionale riconosce solo a metà.

Per questo, forse, il suo destino non potrà mai essere identico a quello del leader sudafricano. Mandela uscì dal carcere per costruire una nuova patria; Barghouti, se uscisse oggi, troverebbe un popolo diviso, istituzioni logorate, e un conflitto che non sembra avvicinarsi alla fine.

Eppure, proprio in questa impossibilità, sta la sua forza. Finché resterà in prigione, Barghouti continuerà a rappresentare la parte migliore di un sogno: la libertà come orizzonte morale, non come conquista militare.

Come Mandela negli anni bui dell’apartheid, come Wałęsa nei cantieri di Danzica, come Gandhi a Yeravda, la sua esistenza stessa è un promemoria: che il potere, quando non è accompagnato dalla giustizia, resta incompleto.

Il giorno in cui Barghouti sarà libero — se mai accadrà — comincerà il suo vero esame: trasformare il mito in politica, la prigionia in progetto, il simbolo in futuro.


Commenti

Post popolari in questo blog

Consiglio d’Europa e Unione Europea: profili comparativi istituzionali, organizzativi e giurisdizionali

Questione palestinese : meglio la soluzione a uno Stato