Perché l’Iran ha sequestrato una petroliera statunitense nel golfo di Oman?

 





Il sequestro da parte dell’Iran di una petroliera statunitense nel Golfo di Oman, con il fermo dell’intero equipaggio, non può essere letto come un semplice atto isolato o come una provocazione fine a sé stessa, ma va inserito in una dinamica di pressione e contropressione che da anni caratterizza il confronto tra Teheran e Washington e che negli ultimi mesi ha coinvolto in modo sempre più diretto anche il Venezuela. Al di là delle motivazioni ufficiali addotte dalle autorità iraniane, l’episodio assume un chiaro valore politico e strategico, soprattutto se considerato alla luce del recente sequestro, da parte degli Stati Uniti, di una petroliera venezuelana accusata di trasportare greggio in violazione delle sanzioni americane e di alimentare, attraverso quei proventi, sia l’economia di Caracas sia quella iraniana. In questo senso, l’azione iraniana appare meno come un gesto arbitrario e più come una risposta indiretta a una politica statunitense che utilizza il controllo delle rotte marittime e degli strumenti legali internazionali per colpire sistematicamente gli interessi economici di paesi considerati ostili, anche quando tali operazioni avvengono a migliaia di chilometri dal territorio statunitense e incidono su traffici che, dal punto di vista del diritto internazionale, restano oggetto di forte controversia. Il Golfo Persico e il Golfo di Oman rappresentano infatti il cuore pulsante del commercio energetico mondiale: attraverso lo Stretto di Hormuz transitano quotidianamente circa venti milioni di barili di petrolio e prodotti petroliferi, pari a circa il 20 per cento della domanda globale e a quasi il 30 per cento delle esportazioni marittime di greggio, oltre a una quota analoga del commercio mondiale di gas naturale liquefatto, in particolare dal Qatar. Questo significa che una parte sostanziale dell’economia globale dipende da un corridoio marittimo estremamente stretto e vulnerabile, che corre a ridosso delle coste iraniane e che l’Iran, grazie alla sua posizione geografica e alla propria dottrina militare, è in grado di controllare o quantomeno di condizionare con relativa facilità. Teheran ha infatti sviluppato nel tempo una strategia navale asimmetrica fondata non sulla competizione diretta con le grandi flotte occidentali, ma sull’uso combinato della marina regolare e, soprattutto, delle forze navali dei Pasdaran, dotate di motovedette veloci, mine navali, piccoli sottomarini, droni marittimi e aerei, missili antinave costieri e tattiche di attacco a sciame che rendono estremamente complessa la protezione continua del traffico commerciale in un’area così ristretta. In questo contesto, il sequestro di una petroliera diventa un’operazione relativamente semplice dal punto di vista militare, ma di enorme impatto simbolico e politico, perché dimostra come l’Iran sia in grado di esercitare una forma di controllo de facto su una delle principali arterie energetiche del pianeta. Il confronto con l’azione statunitense contro la petroliera venezuelana è inevitabile e mette in luce una profonda asimmetria: mentre Washington sfrutta la propria proiezione globale di potenza navale e il sistema delle sanzioni per colpire le esportazioni di paesi come Iran e Venezuela, aggravandone deliberatamente la crisi economica e limitandone l’accesso ai mercati internazionali, Teheran risponde utilizzando la leva geografica e strategica che le è propria, mostrando quanto fragile sia l’architettura della sicurezza energetica globale quando viene piegata a fini politici. La volontà statunitense di strangolare economicamente Caracas e Teheran, impedendo loro di monetizzare le proprie risorse energetiche, non solo ha prodotto un’escalation di sequestri e ritorsioni, ma ha anche contribuito a trasformare le rotte marittime in strumenti di diplomazia coercitiva, aumentando il rischio sistemico per l’intero mercato petrolifero mondiale. È difficile sostenere che queste operazioni rendano il mondo più sicuro o più stabile: al contrario, esse incentivano risposte speculari, rafforzano le dottrine di interdizione marittima di attori come l’Iran e rendono sempre più plausibile che crisi regionali si traducano in shock globali sui prezzi dell’energia. Il sequestro nel Golfo di Oman dimostra dunque non solo la capacità iraniana di controllare un passaggio vitale per l’economia mondiale, ma anche il fallimento di una strategia statunitense che, nel tentativo di colpire economicamente i propri avversari, finisce per aumentare l’instabilità, politicizzare le rotte commerciali e mettere a rischio un sistema energetico già estremamente vulnerabile.


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