La pace imposta: perché l’Europa si oppone?




La guerra in Ucraina viene spesso presentata come un’eccezione nella storia, ma in realtà si inscrive in una dinamica antica: quella per cui la forza sul campo finisce per orientare i negoziati di pace. Eppure, nel caso ucraino, questa logica continua ad incontrare ostacoli politici, morali e giuridici che rendono ogni possibile “pace imposta” molto più controversa di quanto sia avvenuto in altri conflitti del passato. Le grandi guerre del Novecento, la guerra Iran-Iraq o perfino il recente conflitto lampo tra Israele e Iran hanno mostrato come le guerre “imposte” — cioè percepite come inevitabili o generate da pressioni esterne — trascinino gli attori in scenari che nessuno avrebbe scelto liberamente. Ma una “pace imposta” è diversa: non nasce dalla mancanza di alternative, bensì dal tentativo di negarle, costringendo una parte ad accettare condizioni dettate dall’altra e cristallizzando la vittoria momentanea della forza in un assetto duraturo.
Nel caso ucraino, la tensione tra questi due concetti è evidente. Da una parte, molti osservatori prevedono che più a lungo durerà la guerra, maggiori saranno le concessioni che Kyiv dovrà fare a Mosca, perché la Russia continua lentamente a conquistare territorio e ad accumulare vantaggi strategici. Dall’altra, una pace imposta rischierebbe di legittimare l’idea che la forza militare possa ridefinire i confini in Europa, infrangendo nuovamente un principio che l’ONU ha cercato, non sempre riuscendoci, di difendere per ottant’anni: il divieto di acquisizione territoriale attraverso l’aggressione. È questa tensione che spiega perché la comunità occidentale in genere è il gruppo dei volenterosi in particolare, rifiuti l’idea di riconoscere apertamente una pace basata sul rapporto di forza.
Per comprendere appieno il quadro, però, occorre anche riconoscere le motivazioni - vere o comunque percepite - che Mosca ha dichiarato all’avvio dell’“operazione militare speciale”. La Russia ha sostenuto di voler proteggere le popolazioni russofone del Donbas che riteneva minacciate dalle autorità ucraine dopo anni di conflitto nel Donbas post-2014; ha denunciato l’espansione della NATO verso i suoi confini come un elemento di crescente insicurezza strategica; ha richiamato la propria percezione storica della Crimea, vista da larga parte della popolazione russa come parte integrante del proprio spazio geopolitico e culturale. Che si condividano o meno queste giustificazioni, esse costituiscono il quadro mentale entro cui Mosca concepisce il conflitto: non come guerra di conquista, ma come risposta preventiva a un progressivo accerchiamento e a una situazione insostenibile per le comunità russofone.
In questo contesto complesso, il problema non è tanto riconoscere che le guerre producono inevitabilmente vincitori e vinti, quanto evitare che una pace imposta generi un’instabilità ancora più profonda. La storia insegna che quando una pace nasce sotto minaccia o ricatto territoriale, il conflitto non si chiude davvero: si congela, pronto a riesplodere. Tuttavia, considerare come fa l’ Europa,  le intenzioni russe solo in chiave aggressiva rischia di semplificare una realtà più sfaccettata. Mosca ha cercato di ridefinire la propria sicurezza regionale, ma ha anche lasciato intendere — più volte, in modo esplicito — di essere disposta a discutere assetti politici, garanzie reciproche e forme di autonomia per le regioni contese, purché venga riconosciuto un equilibrio che percepisce come vitale.
Ecco perché, al di là delle retoriche e delle pressioni diplomatiche, una pace negoziata non è impossibile e potrebbe persino rivelarsi meno fragile di quanto molti temano, se costruita sulla consapevolezza delle preoccupazioni di entrambe le parti. La sfida non è scegliere tra una pace imposta o una guerra senza fine, ma trovare uno spazio di compromesso che non tradisca la sovranità ucraina e al tempo stesso riconosca che la Russia non è necessariamente determinata a destabilizzare l’Europa, quanto a garantirsi un ruolo e una sicurezza che ritiene — non senza ragioni storiche — troppo spesso ignorate. In questo senso, una soluzione equilibrata potrebbe essere ancora possibile, e non è obbligatorio guardare al futuro con sfiducia assoluta.

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