Taiwan, il principio dell’“Una sola Cina” e l’attivismo di Tokyo e l'allarme di Pechino

 




Nel dibattito geopolitico asiatico, poche questioni evocano reazioni tanto viscerali quanto quella di Taiwan. Per la Cina si tratta di una questione di sovranità, dignità nazionale e continuità storica; per il Giappone rappresenta sempre più un nodo strategico legato alla propria sicurezza e all’alleanza con gli Stati Uniti. Negli ultimi mesi, però, questa tensione è esplosa con nuova forza dopo l’ascesa politica di Sanae Takaichi, figura conservatrice del Partito Liberal Democratico, considerata una delle leader più schiettamente nazionaliste della scena politica giapponese. Il suo arrivo alla guida del governo ha riacceso timori e sospetti a Pechino, mentre in patria ha spaccato l’opinione pubblica. L’impressione, vista da Pechino, è che il Giappone stia progressivamente abbandonando la prudenza diplomatica mantenuta per decenni per imboccare una strada più assertiva, se non apertamente conflittuale, in linea con le aspettative strategiche di Washington.

Per capire perché la Cina reagisca con tanta preoccupazione, bisogna partire dal principio della “una sola Cina”. Non si tratta, agli occhi di Pechino, di un dogma ideologico, ma del fondamento stesso della Repubblica Popolare. Taiwan è presentata come una parte inseparabile della nazione cinese, separata solo da una parentesi storica legata al periodo coloniale giapponese e alla guerra civile del Novecento. La riunificazione è considerata non solo inevitabile, ma necessaria per completare quello che i leader cinesi chiamano “il ringiovanimento nazionale”. In quest’ottica, qualsiasi paese che interviene sulla questione di Taiwan non viene percepito come un semplice attore internazionale che esprime una posizione, ma come un soggetto che mette in discussione la sovranità di una grande potenza e interferisce in un processo interno.

Proprio per questo, a Pechino la nuova postura giapponese è considerata con crescente irritazione. L’avvicinamento tra Tokyo e Taipei, pur mantenuto nel quadro informale imposto dai rapporti diplomatici, è percepito come un tentativo di rallentare o impedire il processo di riunificazione. E quando Takaichi ha dichiarato che il Giappone “non può restare indifferente alle sorti di Taiwan” e deve “prepararsi ad agire con determinazione”, i commentatori cinesi lo hanno letto come un superamento della tradizionale ambiguità giapponese. La narrativa prevalente nei media cinesi parla di ingerenza negli affari interni della Cina, di violazione del diritto internazionale e, più in profondità, di un ritorno di atteggiamenti considerati retaggi del passato militarista giapponese.

Questa percezione non è casuale. Nella memoria storica cinese, il Giappone non è un paese come gli altri, ma la potenza che ha invaso e devastato la Cina nella prima metà del Novecento, lasciando ferite ancora vive nella coscienza collettiva. Ogni segnale che suggerisca un riarmo o un rafforzamento militare giapponese genera automaticamente diffidenza. L’immagine di un Giappone che discute apertamente la possibilità di proiettare forza militare a difesa di Taiwan suscita reazioni che mescolano la paura di un ritorno al passato e il sospetto che Tokyo stia cercando di recuperare un ruolo egemonico nella regione. Il fatto che Takaichi rappresenti l’ala più conservatrice della politica nipponica alimenta ulteriormente questa inquietudine: i suoi ripetuti omaggi a figure storiche controverse o le sue posizioni rigide sulle dispute territoriali nel Mar Cinese Orientale vengono regolarmente riportati dai media cinesi come segnali di una deriva ideologica preoccupante.

Parallelamente, in Cina si tende a leggere la posizione giapponese in chiave più ampia, come parte di una strategia statunitense volta a contenere l’ascesa cinese. La crescente cooperazione militare tra Stati Uniti e Giappone, l’ammodernamento delle basi americane sul territorio nipponico e il rafforzamento delle capacità di attacco preventivo delle Forze di Autodifesa sono interpretati come tessere di un mosaico più grande. Secondo diversi analisti cinesi, il Giappone starebbe progressivamente trasformandosi nel “cardine orientale” del contenimento della Cina, assumendo un ruolo che Washington non può svolgere direttamente senza rischiare una guerra aperta. In questa lettura, l’isola di Taiwan diventa il punto di attrito più sensibile: per Pechino, Tokyo starebbe tentando di inserirsi in una questione esistenziale con motivazioni che vanno oltre la semplice “preoccupazione per la stabilità regionale”.

Mentre in Cina prevale dunque una visione fortemente critica del comportamento giapponese, all’interno del Giappone il dibattito è tutt’altro che uniforme. È vero che l’ala conservatrice del paese sostiene con convinzione una postura più assertiva. Una parte dell’establishment ritiene che un eventuale attacco cinese a Taiwan equivarrebbe a un attacco indiretto al Giappone, sia per ragioni geografiche — le isole meridionali nipponiche si trovano a pochi chilometri dallo Stretto — sia per via delle linee di comunicazione marittima che attraversano quelle acque. Secondo questa visione, “difendere Taiwan” significherebbe in realtà difendere il Giappone stesso. Ma un’altra parte significativa della società giapponese guarda con grande preoccupazione all’inasprimento dei toni. Molti temono che Tokyo stia correndo troppo, accettando un ruolo da protagonista in un possibile scenario di conflitto che sarebbe devastante per il paese. Il Giappone pacifista, radicato nel dopoguerra e nella Costituzione del 1947, non è sparito; anzi, continua a esercitare una forza morale e politica considerevole.

Le divisioni interne emergono anche sul piano economico. La Cina è il principale partner commerciale del Giappone, e molte grandi aziende nipponiche dipendono profondamente dal mercato cinese. Ogni volta che i rapporti bilaterali si inaspriscono, le reazioni dei settori economici si fanno sentire, ricordando che un conflitto aperto con Pechino avrebbe conseguenze immediate per la stabilità economica giapponese. Questa consapevolezza si traduce spesso in pressioni più o meno velate sull’esecutivo, affinché moderi i toni e mantenga un canale di dialogo con la leadership cinese.

Dall’altra parte del Mar Giallo, però, queste sfumature interne vengono percepite solo parzialmente. Per la Cina, ciò che conta è l’indirizzo politico generale, e l’impressione è che il Giappone stia compiendo un passo dopo l’altro verso una postura più assertiva, con un ritmo che negli ultimi anni si è impennato visibilmente. Il dibattito interno giapponese, per quanto vivace, non attenua la preoccupazione cinese: a Pechino temono che, al momento opportuno, le voci più moderate possano essere schiacciate da un consenso emergente a favore di una linea più dura, soprattutto se alimentato dall’alleanza con Washington. L’attuale clima internazionale, segnato da rivalità tecnologiche, competizioni per le rotte marittime e crescente militarizzazione dell’Asia-Pacifico, rischia di consolidare questa traiettoria.

In questa cornice complessa, l’ascesa di Sanae Takaichi appare a Pechino come l’ennesimo segnale negativo. Non si tratta solo delle sue idee su Taiwan, ma di un complesso di posizioni che, prese insieme, suggeriscono un Giappone più ideologico, più militarizzato e meno disposto a fare concessioni. Gli editoriali cinesi sottolineano spesso come Takaichi rappresenti una frattura rispetto alla leadership più pragmatica degli anni precedenti, interpretando questo cambiamento come un segno che il Giappone stia scegliendo consapevolmente una linea antagonista nei confronti della Cina. Da qui le preoccupazioni di alcuni commentatori giapponesi, che parlano addirittura di una “crisi per la sopravvivenza del paese”: non una previsione catastrofista, ma il timore che un atteggiamento troppo rigido possa spingere il Giappone dentro una spirale di tensione con conseguenze non calcolabili.

Vista dalla Cina, la questione non è solo diplomatica ma strategica, storica ed emotiva allo stesso tempo. La memoria del passato, la percezione del presente e la paura del futuro si intrecciano in un quadro che rende ogni gesto giapponese, ogni dichiarazione, ogni mossa militare un potenziale detonatore di sospetti. Dall’altra parte, il Giappone si percepisce come un paese costretto a difendersi in un contesto di crescente pressione cinese nel Pacifico.

In mezzo a questi due mondi, Taiwan rimane al centro di un equilibrio fragile. La sua sorte è oggi legata non solo alle dinamiche interne cinesi, ma anche a quelle della politica giapponese, a un’opinione pubblica divisa, a una leadership sempre più assertiva e a una percezione cinese che tende a vedere nelle mosse di Tokyo non un semplice calcolo strategico, ma un segnale di un passato che, dal punto di vista cinese, non deve mai tornare.

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