L’eco lunga delle frontiere
L'11 novembre 2025, un attentato suicida è avvenuto davanti a un tribunale di Islamabad, causando almeno 12 morti e 36 feriti e il governo pakistano ha accusato gruppi estremisti sostenuti dall'India.
Poche ore prima dell'attentato di Islamabad, un'esplosione aveva ucciso otto persone nella capitale indiana.
Gli attentati che hanno colpito Islamabad e Nuova Delhi sono soltanto l’ultimo lampeggiare di un incendio che cova da decenni. È come se l’Asia meridionale fosse tornata, d’improvviso, a guardarsi allo specchio: e l’immagine riflessa è quella di una regione che non ha mai davvero smesso di vivere nel proprio passato. Da un lato India e Pakistan si puntano il dito come attori di una tragedia già scritta; dall’altro, il Pakistan deve fronteggiare le nuove fiammate di violenza al confine afghano, dove la storia non ha solo lasciato cicatrici, ma ha inciso vere e proprie linee di frattura.
Per comprendere questa escalation bisogna tornare al 1947, al momento in cui la Partizione dell’Impero britannico trasformò il subcontinente in un campo di profughi, convogli di disperati e massacri senza nome. La nascita di India e Pakistan fu un atto veloce, ma lo strappo che provocò continua a sanguinare. Da quel trauma nacquero due identità che spesso si definiscono più in opposizione che in relazione. Il Pakistan costruì la propria legittimità come patria dei musulmani della regione; l’India, multiculturale per vocazione e dimensione, si percepì come la legittima erede della sua lunga storia continentale. In mezzo, un’eredità ingombrante: il Kashmir.
Quella valle, incastonata tra montagne e tensioni, è da oltre settant’anni l’epicentro della rivalità indo-pakistana. La prima guerra esplose già nel 1947, e da allora ogni gesto, ogni dichiarazione, ogni esplosione viene interpretata come un tassello di un gioco più grande. Le insurrezioni locali, le accuse di complicità, le operazioni militari: tutto concorre a rendere il Kashmir una miccia che nessuno riesce a spegnere del tutto. È per questo che gli attentati recenti assumono un peso così opprimente: in una regione carica di simboli, il rischio che un episodio isolato venga percepito come un atto deliberato dell’avversario è altissimo.
E mentre l’attenzione mediatica si concentra sul fronte orientale del Pakistan, quello occidentale ribolle con la stessa intensità. Le relazioni con l’Afghanistan sono un labirinto in cui confluiscono confini tracciati dalla storia coloniale, identità tribali che ignorano le mappe politiche e dinamiche di potere mutate in continuazione. La linea Durand, mai davvero accettata da Kabul, taglia in due territori pashtun che mantengono legami più forti della burocrazia statale. In questo contesto, gli scontri armati che nelle ultime settimane hanno causato decine di vittime non sono affatto un fulmine a ciel sereno, ma l’ennesima manifestazione di un’instabilità che nessuno riesce a contenere.
Intorno a questo quadro, gli attori regionali e globali osservano con crescente inquietudine. La Cina, impegnata nel suo Corridoio Economico attraverso il Pakistan, sa bene che ogni destabilizzazione può minacciare il cuore delle sue ambizioni economiche. Gli Stati Uniti, reduci da vent’anni di coinvolgimento in Afghanistan, guardano con sospetto a ogni nuovo movimento che possa riaprire un capitolo che credevano chiuso. La Russia studia la situazione alla ricerca di nuove opportunità diplomatiche. L’Iran teme che l’instabilità al confine orientale possa riverberarsi sulle proprie regioni più vulnerabili. Ognuno ha qualcosa da perdere, qualcuno potrebbe perfino avere qualcosa da guadagnare. Nessuno può permettersi l’indifferenza.
Il punto è che la crisi non nasce da un singolo attentato, e nemmeno da due. Nasce dall’incapacità collettiva di chiudere i conti con la propria storia. Gli Stati possono cambiare governi, strategie, politiche di sicurezza; ma finché le ferite della Partizione, del Kashmir e della linea Durand non saranno affrontate con serietà, ogni scintilla rischierà di trasformarsi in incendio.
Oggi, più che mai, il destino dell’Asia meridionale dipende dalla capacità di separare ciò che è accaduto allora da ciò che serve fare adesso. È un compito gigantesco, e nessun attore esterno potrà svolgerlo al posto dei Paesi coinvolti. Ma senza questo passo, la regione continuerà a oscillare tra tregue precarie e nuove eruzioni di violenza. E ogni nuova crisi, come quella scatenata dagli attentati recenti, non farà altro che ricordare al mondo che il passato, in Asia meridionale, non è mai davvero passato.
Poche ore prima dell'attentato di Islamabad, un'esplosione aveva ucciso otto persone nella capitale indiana.
Gli attentati che hanno colpito Islamabad e Nuova Delhi sono soltanto l’ultimo lampeggiare di un incendio che cova da decenni. È come se l’Asia meridionale fosse tornata, d’improvviso, a guardarsi allo specchio: e l’immagine riflessa è quella di una regione che non ha mai davvero smesso di vivere nel proprio passato. Da un lato India e Pakistan si puntano il dito come attori di una tragedia già scritta; dall’altro, il Pakistan deve fronteggiare le nuove fiammate di violenza al confine afghano, dove la storia non ha solo lasciato cicatrici, ma ha inciso vere e proprie linee di frattura.
Per comprendere questa escalation bisogna tornare al 1947, al momento in cui la Partizione dell’Impero britannico trasformò il subcontinente in un campo di profughi, convogli di disperati e massacri senza nome. La nascita di India e Pakistan fu un atto veloce, ma lo strappo che provocò continua a sanguinare. Da quel trauma nacquero due identità che spesso si definiscono più in opposizione che in relazione. Il Pakistan costruì la propria legittimità come patria dei musulmani della regione; l’India, multiculturale per vocazione e dimensione, si percepì come la legittima erede della sua lunga storia continentale. In mezzo, un’eredità ingombrante: il Kashmir.
Quella valle, incastonata tra montagne e tensioni, è da oltre settant’anni l’epicentro della rivalità indo-pakistana. La prima guerra esplose già nel 1947, e da allora ogni gesto, ogni dichiarazione, ogni esplosione viene interpretata come un tassello di un gioco più grande. Le insurrezioni locali, le accuse di complicità, le operazioni militari: tutto concorre a rendere il Kashmir una miccia che nessuno riesce a spegnere del tutto. È per questo che gli attentati recenti assumono un peso così opprimente: in una regione carica di simboli, il rischio che un episodio isolato venga percepito come un atto deliberato dell’avversario è altissimo.
E mentre l’attenzione mediatica si concentra sul fronte orientale del Pakistan, quello occidentale ribolle con la stessa intensità. Le relazioni con l’Afghanistan sono un labirinto in cui confluiscono confini tracciati dalla storia coloniale, identità tribali che ignorano le mappe politiche e dinamiche di potere mutate in continuazione. La linea Durand, mai davvero accettata da Kabul, taglia in due territori pashtun che mantengono legami più forti della burocrazia statale. In questo contesto, gli scontri armati che nelle ultime settimane hanno causato decine di vittime non sono affatto un fulmine a ciel sereno, ma l’ennesima manifestazione di un’instabilità che nessuno riesce a contenere.
Intorno a questo quadro, gli attori regionali e globali osservano con crescente inquietudine. La Cina, impegnata nel suo Corridoio Economico attraverso il Pakistan, sa bene che ogni destabilizzazione può minacciare il cuore delle sue ambizioni economiche. Gli Stati Uniti, reduci da vent’anni di coinvolgimento in Afghanistan, guardano con sospetto a ogni nuovo movimento che possa riaprire un capitolo che credevano chiuso. La Russia studia la situazione alla ricerca di nuove opportunità diplomatiche. L’Iran teme che l’instabilità al confine orientale possa riverberarsi sulle proprie regioni più vulnerabili. Ognuno ha qualcosa da perdere, qualcuno potrebbe perfino avere qualcosa da guadagnare. Nessuno può permettersi l’indifferenza.
Il punto è che la crisi non nasce da un singolo attentato, e nemmeno da due. Nasce dall’incapacità collettiva di chiudere i conti con la propria storia. Gli Stati possono cambiare governi, strategie, politiche di sicurezza; ma finché le ferite della Partizione, del Kashmir e della linea Durand non saranno affrontate con serietà, ogni scintilla rischierà di trasformarsi in incendio.
Oggi, più che mai, il destino dell’Asia meridionale dipende dalla capacità di separare ciò che è accaduto allora da ciò che serve fare adesso. È un compito gigantesco, e nessun attore esterno potrà svolgerlo al posto dei Paesi coinvolti. Ma senza questo passo, la regione continuerà a oscillare tra tregue precarie e nuove eruzioni di violenza. E ogni nuova crisi, come quella scatenata dagli attentati recenti, non farà altro che ricordare al mondo che il passato, in Asia meridionale, non è mai davvero passato.
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