La “religione olocaustica”: memoria, identità e sacralizzazione della Shoah
Nel secondo dopoguerra, la memoria della Shoah ha assunto un ruolo centrale nella coscienza ebraica, israeliana e, più in generale, occidentale. Alcuni studiosi e osservatori — fra cui Yeshayahu Leibowitz, Jacob Neusner, Norman Finkelstein, Idith Zertal, e più recentemente Tom Segev — hanno sostenuto che la Shoah non costituisca solo un evento storico o una tragedia collettiva, ma che si sia progressivamente trasformata in una categoria teologico-civile, una sorta di “religione secolare” fondata sul culto della memoria, sul martirio e sull’identità vittimaria.
È in questo senso che si parla, spesso in tono critico, di “religione dell’Olocausto” (Holocaust Religion), espressione che designa non la fede ebraica tradizionale, ma un sistema di valori, simboli e riti costruito intorno alla memoria della Shoah e istituzionalizzato in pratiche civiche, educative e politiche che caratterizza ormai gran parte della classe politica di governo israeliana.
L’espressione “religione dell’Olocausto” non nasce in ambito accademico, ma nel dibattito culturale e politico israeliano degli anni ’70 e ’80.
Yeshayahu Leibowitz, filosofo della scienza e pensatore religioso, ebreo osservante e sionista critico, fu tra i primi a denunciare ciò che vedeva come una trasformazione idolatrica della memoria. A suo giudizio, Israele aveva sostituito la fede in Dio con la fede nello Stato e nel trauma collettivo della Shoah: un “culto dei morti” che rischiava di corrompere sia la religione ebraica sia la moralità pubblica.
Successivamente, studiosi come Norman Finkelstein (in The Holocaust Industry, 2000) e Peter Novick (in The Holocaust in American Life, 1999) hanno descritto come, negli Stati Uniti e in Israele, la Shoah sia divenuta una “religione civile” — dotata di dogmi (l’unicità assoluta dell’evento), di rituali (le commemorazioni ufficiali), di simboli sacri (i musei, Yad Vashem), e di tabù (la proibizione di relativizzare o comparare).
In questa prospettiva, la Shoah diventa una sorta di mito fondativo moderno, che organizza il senso morale e politico dell’ebraicità contemporanea, sostituendo la Legge mosaica o l’attesa messianica con la memoria del genocidio.
Molti autori hanno sottolineato come questo fenomeno assuma i tratti tipici di una religione secolare o di una religione civile (nel senso di Robert Bellah):
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Dogma e unicità – La Shoah è presentata come un evento senza precedenti e non comparabile, un “mistero del male” assoluto, inaccessibile alla piena comprensione storica.
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Ritualità e liturgia – Le commemorazioni annuali (Yom HaShoah, Giorno della Memoria), le visite ai memoriali, le narrazioni pedagogiche e cinematografiche costituiscono pratiche rituali condivise.
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Sacerdozio e custodi della memoria – Storici, sopravvissuti, istituzioni memoriali e politici fungono da “mediatori del sacro”, stabilendo cosa sia lecito ricordare e come.
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Etica e identità – L’appartenenza ebraica (e in parte anche occidentale) si definisce attraverso il dovere di ricordare, di testimoniare, di prevenire un nuovo genocidio.
La Shoah, così sacralizzata, diventa il centro morale di una nuova etica laica fondata sulla vittima e sull’imperativo del “mai più”. Tuttavia, come hanno osservato alcuni autori, questo paradigma memoriale assoluto sembra già essersi trasformato in una forma di religione negativa, più ossessionata dal trauma che orientata al futuro.
Le critiche mosse a questa “religione” provengono da ambiti differenti:
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Critica teologica (Leibowitz): il rischio di idolatria e di sostituzione della fede con la memoria.
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Critica politica (Finkelstein, Zertal): la strumentalizzazione della Shoah per legittimare la politica israeliana e per neutralizzare ogni critica come forma di antisemitismo.
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Critica storica (Novick, Segev): la trasformazione del ricordo in ideologia, in cui la vittimizzazione permanente diventa un tratto identitario e geopolitico.
Nel XXI secolo, la Shoah è divenuta un riferimento globale, inserito nei programmi scolastici, nei musei della memoria e nei discorsi politici di molti paesi. Ciò ha generato una sorta di “universalizzazione del trauma ebraico”, che, seppure abbia ispirato altre memorie collettive (colonialismo, genocidi africani, pulizie etniche) continua a distinguersi per la sua centralità e per la sua istituzionalizzazione nonchè per il carattere sacralizzato che la sua memoria assume nelle società occidentali.
Come osserva lo storico Enzo Traverso, si è passati “dalla storia alla memoria, dalla memoria alla religione civile”: un processo che ha reso la Shoah il nuovo paradigma del male assoluto e, al contempo, un linguaggio etico universale, ma spesso svuotato del suo contesto storico-politico.
L’espressione “religione dell’Olocausto”, pur controversa, individua un fenomeno reale: la trasformazione della memoria della Shoah da testimonianza storica a mito identitario, da trauma collettivo a fondamento morale.
Essa segnala un bisogno di sacralità in una società secolarizzata, ma anche il rischio di sostituire la fede, la storia o la giustizia con la retorica della memoria.
Come ammoniva Leibowitz, la religione ebraica vive laddove l’uomo si confronta con Dio e con la Legge, non laddove sacralizza i propri morti. La sfida contemporanea resta quella di ricordare senza idolatrare, di trasformare la memoria in responsabilità etica, non in religione civile.

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