Francesca Albanese : quanto sono fondate le accuse di genocidio a Israele ?
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| Foto tratta dal web |
La relatrice ONU per i Territori palestinesi, accusata da Israele, Stati Uniti e parte del governo italiano, continua a denunciare violazioni sistemiche. Ma le sue tesi sono fondate? Un’analisi giuridica e politica delle critiche e dei rapporti internazionali.
Quando Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi Occupati, ha usato la parola “genocidio” nei suoi ultimi rapporti, la reazione è stata immediata: Israele l’ha accusata di parzialità, gli Stati Uniti l’hanno sanzionata, e in Italia esponenti della maggioranza di governo hanno preso le distanze dalle sue dichiarazioni.
Per contro, l’opinione pubblica e i social si sono schierati a sua difesa accusando gli esponenti di Governo e anche il Presidente della Repubblica Italiana di non aver preso le difese di Francesca Albanese dalle accuse statunitensi e di non avere richiesto la rimozione delle sanzioni così come invece hanno fatto diversi leaders politici internazionali e anche lo stesso Segretario Generale dell’ONU.
Dietro lo scontro politico, però, c’è un nodo di sostanza: la qualificazione giuridica delle condotte israeliane a Gaza e in Cisgiordania. Albanese sostiene che esista un “rischio genocidario concreto”, basandosi su dati e documenti raccolti nell’ambito del suo mandato ONU.
È un’accusa che divide, ma che, al di là delle reazioni che suscita , merita di essere analizzata nei suoi termini tecnici e non solo emotivi.
Nei suoi rapporti più recenti – “Anatomy of a Genocide” e “Genocide as Colonial Erasure” – la relatrice italiana delinea un quadro molto preciso di pratiche sistematiche: bombardamenti massicci, sfollamenti forzati, blocchi economici, distruzione di infrastrutture civili e impedimento all’assistenza umanitaria.
Secondo l’Albanese, non si tratterebbe di episodi isolati, ma di una strategia coerente volta a “cancellare” l’esistenza stessa del popolo palestinese in alcune aree, anche attraverso la dimensione economica e la complicità di attori privati.
«Gli atti di distruzione e sofferenza inflitti a Gaza e in Cisgiordania», scrive, «non possono più essere spiegati solo come effetto collaterale della guerra, ma come elementi di un progetto di cancellazione nazionale».
La Convenzione ONU sul genocidio del 1948 definisce il crimine come l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso.
Il punto cruciale è quindi l’intento specifico: non basta che vi siano morti e devastazioni su larga scala, serve la prova che l’obiettivo sia proprio l’eliminazione del gruppo in quanto tale.
Ed è questo il terreno su cui si gioca la disputa tra i giuristi.
Molti esperti infatti riconoscono la gravità dei fatti denunciati da Albanese, ma invitano alla prudenza: dimostrare l’intento genocidario è una delle prove più difficili da ottenere. Nei precedenti internazionali (Ruanda, ex Jugoslavia), il genocidio è stato accertato perché come la prova dell'intento specifico è stata fornita da documenti e ordini espliciti che hanno dimostrato un piano deliberato di sterminio.
La Corte Internazionale di Giustizia (ICJ), nella causa intentata dal Sudafrica contro Israele, ha riconosciuto il 26 gennaio 2024 l’esistenza di un rischio plausibile di violazione della Convenzione sul genocidio, ordinando a Israele di adottare “tutte le misure possibili” per prevenire tali atti e garantire l’ingresso degli aiuti umanitari.
Pur non trattandosi di una condanna definitiva, è comunque una valutazione giuridica che conferisce solidità alle preoccupazioni sollevate da Albanese.
Parallelamente, la Corte Penale Internazionale (ICC) ha avviato indagini per crimini di guerra e crimini contro l’umanità nei Territori palestinesi, pur senza — finora — formulare capi d’accusa esplicitamente legati al genocidio.
Le critiche rivolte ad Albanese si concentrano su tre aspetti principali:
- Assenza di prova diretta dell’intento genocidario.
I detrattori sostengono che non siano emersi documenti, ordini o piani che dimostrino la volontà di distruggere il popolo palestinese come gruppo. - Contestualizzazione militare.
Israele sostiene che le operazioni a Gaza abbiano come obiettivo esclusivo Hamas, e che i civili non siano bersagli intenzionali ma vittime collaterali di una guerra complessa. - Accusa di politicizzazione.
Stati Uniti e parte della diplomazia occidentale accusano Albanese di “lawfare”, ovvero di usare il diritto internazionale come arma politica. Le sanzioni statunitensi del 2025 contro di lei ne sono la manifestazione più evidente.
Albanese respinge queste accuse: «Chiedere il rispetto del diritto internazionale umanitario non è un atto politico, ma un dovere morale», ha replicato.
La vicenda di Francesca Albanese non riguarda solo una persona, ma l’autorevolezza stessa delle Nazioni Unite e la tenuta del diritto internazionale.
La sua figura è diventata simbolo di una tensione profonda: quella tra chi chiede che le istituzioni internazionali chiamino le cose con il loro nome, anche quando si tratta di un alleato occidentale, e chi teme che simili accuse possano indebolire il dialogo diplomatico o fornire argomenti ai gruppi estremisti.
In mezzo, resta il dato giuridico: nessun tribunale ha ancora accertato in via definitiva il genocidio, ma la Corte dell’Aia ha stabilito che l’ipotesi è “plausibile”. E questo, nel linguaggio prudente del diritto internazionale, è già un segnale di gravità eccezionale.
Le critiche politiche contro Francesca Albanese trovano terreno in un aspetto reale — la difficoltà di provare l’intento genocidario — ma non invalidano la sostanza del suo lavoro: documentare, con prove verificabili, gravi violazioni dei diritti umani.
Le sue tesi, insomma, sono fondate sul piano probatorio, anche se la parola “genocidio” resta, per ora, una qualificazione giuridica da accertare in tribunale.
Ciò che è certo è che la questione non si chiuderà con le polemiche, ma con i giudizi delle corti internazionali e la tenuta del diritto universale che Albanese, comunque la si pensi, ha riportato al centro del dibattito mondiale.

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